La procura di Torino ha richiesto la condanna a 7 anni per Stephan Schmidheiny, l’imprenditore svizzero, per il decesso di due operai dello stabilimento di Cavagnolo a causa dell’esposizione all’amianto. La pena richiesta rappresenta il massimo possibile ed è stata motivata dal pm Gianfranco Colace con il riferimento “al disegno lucido che metteva davanti la tutela dell’azienda e in secondo piano la tutela della salute. Nonostante fossero noti i rischi per l’esposizione da amianto non sono state prese misure per la sicurezza dei lavoratori e della popolazione, visto lo stato di abbandono in cui sono stati lasciati gli stabilimenti”.
Il filone torinese è uno dei quattro appartenenti inchiesta Eternit bis che, sebbene nascesse sulla scia del primo e storico processo Eternit nel quale veniva contestato il reato ambientale ai danni di 258 vittime – conclusosi poi con la prescrizione – ha subito uno spacchettamento sulla base della competenza territoriale (gli atti sono stati inviati al tribunale di Vercelli per le morti di Casale Monferrato, a quello di Reggio Emilia per lo stabilimento di Rubiera e a quello di Napoli per lo stabilimento di Bagnoli).
FOCUS: PROCESSO ETERNIT, STORIA DI UNA PRESCRIZIONE
Lo storico processo Eternit in cui veniva contestato il reato ambientale ai danni di 258 vittime si è concluso con una sentenza, per certi versi, altrettanto storica: la Suprema Corte ha annullato condanne e risarcimenti, spiegando, in parole povere, che il reato era prescritto ancor prima che il processo iniziasse. L’intervento della Cassazione che prescrive il reato e cancella la condanna a 18 anni al manager svizzero Stephan Schmidheiny e tutti i relativi risarcimenti, è stato così motivato: “a far data dall’agosto dell’anno 1993 era ormai dimostrato l’effetto dannoso delle polveri di amianto” la cui lavorazione, sempre nel 1993, era stata “definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti”. Pertanto da tale data al 2009, anno del rinvio a giudizio “sono passati ben oltre i 15 anni previsti per la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005”. Anche l’imputazione applicata Schmidheiny non, secondo la Cassazione, era errata: quella per disastro, infatti, che prevede una pena massima di 12 anni di reclusione, è stata giudicata troppo bassa per chi si “ritiene responsabile con condotta dolosa di plurimi omicidi”. La sentenza è stata duramente contestata dai famigliari delle vittime. Bruno Pesce, portavoce dell’associazione Afeva di Casale Monferrato, l’ha bollata come “anacronistica” e ha commentato: “I giudici non tengono conto del fatto che il disastro è ancora in essere negli effetti e nelle cause”.