Lega al Sud, gli impresentabili: Lecce, il senatore Marti e quella casa confiscata promessa al fratello del boss

Roberto Marti: la Lega a Lecce

Ora non provino a dire che non sapevano nulla dei trascorsi di Roberto Marti, un politico navigato. Assessore comunale a Lecce, consigliere regionale, deputato e adesso senatore. Da Forza Italia al PDL, alla costola pugliese di Raffaele Fitto e infine alla Lega di Matteo Salvini.

All’epoca, persino i giornali locali pubblicarono delle intercettazioni devastanti di un “colletto bianco” di un importante clan della “Sacra corona unita”, la quarta mafia pugliese, che a una sua amica, alla vigilia della proclamazione dei consiglieri comunali eletti, disse euforico: «Tutti i miei cavalli stanno vincendo». E il giorno della proclamazione furono diverse le chiamate di auguri: «I miei hanno vinto tutto». Si riferiva anche a Roberto Marti, che però ne uscì processualmente «immacolato».

Dagli anni Ottanta fino a ieri, la filosofia giudiziaria leccese prevedeva di bastonare l’ala militare della mafia locale e di non vedere i “colletti bianchi”. Sordo era il ceto politico comunale. Anche a fronte di requisitorie dell’opposizione: «Noi abbiamo il dovere politico di interrogarci e spiegare perché tra i banchi del consiglio comunale siedono esponenti sostenuti dalla Sacra corona unita». Appelli lasciati cadere nel vuoto.

 

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È vero che Lecce è nel tacco dello Stivale e prima che iniziassero a frequentare l’Italia, i leghisti erano arroccati nel Lombardo-Veneto. Ma non possiamo credere che sono stati stranieri in terra straniera fino a ieri. E dunque dovevano sapere che Roberto Marti fosse chiacchierato, soprattutto per una discutibile politica nell’assegnazione delle case popolari, che negli anni ha avuto per tre volte l’auto incendiata, e non per autocombustione. Che era finito sotto inchiesta per l’assegnazione di una casa confiscata a un mafioso che doveva finire al fratello di un altro mafioso.

E ora che è stato eletto senatore nella lista della Lega al sud, i magistrati di Lecce hanno spedito alla Camera dei deputati (all’epoca dei fatti era deputato) la richiesta di poter utilizzare delle intercettazioni telefoniche (indirette) nell’ambito della inchiesta che ha decapitato la giunta comunale di centrodestra per la gestione delle case popolari. Una inchiesta che ha fatto “morti e feriti”: 34 indagati, arresti di assessori e di consiglieri comunali, di dirigenti del comune. Voti elettorali in cambio di alloggi popolari. I reati contestati vanno dal tentato abuso d’ufficio al tentato peculato, al falso ideologico aggravato.

È che Matteo Salvini e la sua Lega non vanno per il sottile. Il Sud è questo, è fatto anche di faccendieri, questuanti, malavitosi, padrini e capi bastone. Gente che non ha problemi a comprare o vendere pacchetti di voti. Politici che hanno cambiato casacca senza doversi vergognare del loro passato.

E al supermercato della compravendita dei voti elettorali (europee, nazionali, regionali, provinciali o comunali) i leghisti hanno mostrato di essere capaci nel fiutare l’affare, imbarcando anche gli impresentabili.

Del resto se le forze politiche leccesi lo “graziarono” una quindicina d’anni fa perché oggi il Tribunale della Lega dovrebbe condannare Marti?

Marti, fedelissimo di Raffaele Fitto, anche lui un figlio d’arte. Suo padre, presidente della Regione Puglia, democristiano, morì in un incidente stradale e lasciò al giovanissimo Raffaele una dote di 100.000 preferenze elettorali. Democristiano quando crollò la Prima Repubblica, si ritrovò con Silvio Berlusconi, oggi una delle anime insofferenti del centrodestra.

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Roberto Marti aspetta fiducioso che la Giunta per le autorizzazioni blocchi la richiesta del semaforo verde per alcune intercettazioni telefoniche. Confida anche nella carta della prescrizione per uscirne immacolato.

Un aiuto non si nega a nessuno, soprattutto se è un elettore.  Nelle carte inviate dalla Procura di Lecce a Montecitorio, i magistrati ricostruiscono la vicenda. Nell’ufficio di un dirigente del comune, viene raccontata la tragedia vissuta dal fratello di un boss, Antonio Briganti: «Il 30 giugno del 2014 era andata bruciata la casa ed era rimasto per strada. Da quel momento Monosi (un assessore, ndr) si era adoperato per cercargliene una, anche attraverso la graduatoria per gli alloggi ERP, di cui la moglie Luisa Martina faceva parte senza riuscirci e che pertanto erano alloggiati presso il residence “Giardini di Atena” dove pagava la cifra, per lui insostenibile, di 600 euro al mese».

Il dirigente comunale si impegnò a garantirgli «una casa di quelle che abbiamo sequestrato…».

Il nome del senatore Marti nelle carte è omissato: «Ė stato proprio (omissis) a incaricare Rosario Greco detto Andrea di cercare una soluzione per il problema abitativo di Antonio Briganti. Addirittura dalle conversazioni intercettate sull’utenza di Greco si evince che (omissis) aveva chiesto “piangendo” di risolvere per lui la situazione del Briganti».

«Greco: “Non abbiamo fatto costruzioni, hanno fatto tutto loro, per favori che hanno ricevuto a ripetizione, loro si sono offerti quando si è bruciata la casa”, facendo emergere la circostanza che l’intervento di (omissis) al fine di far ottenere una sistemazione alloggiativa ad Antonio Briganti, derivava da favori ricevuti a ripetizione. Rosario alias Andrea Greco, vero e proprio collettore di voti, anche a pagamento trova piena conferma nella vicenda accertata nel contesto delle elezioni regionali 2015».

Anche la vicenda Marti finirà sul tavolo dello “scambio” tra lega e Cinque Stelle per rispettare il “contratto”? Pratiche da Prima Repubblica. Ma il vero miracolo della Lega è che seppure unico partito superstite della stagione di Mani Pulite, nell’immaginario collettivo si presenta come il partito fustigatore, del pugno di ferro, della legalità e della legittima difesa. Forse si difende da incursioni esterne. Imbarca gli impresentabili, però è come se Matteo Salvini li battezzasse assolvendoli dai loro peccati. E il Sud si dà un pizzico sullo stomaco pur di andare avanti, pur di garantirsi un futuro. A qualsiasi prezzo.