Rocco Siffredi e le dimensioni del mio PIL

Davvero vale la pena di esultare per un +0,2% trimestrale del Prodotto Interno Lordo? Siccome le dimensioni contano da Rocco Siffredi in giù, proviamo a confrontare un po'... i dati

La settimana scorsa abbiamo assistito a scene di giubilo in piazza per la cosiddetta uscita dell’Italia dalla recessione, grazie alla stima preliminare del Prodotto Interno Lordo partorita dall’ISTAT che vede una roboante crescita dello 0,2% nel primo trimestre 2019. D’accordo, in campagna elettorale un po’ di propaganda non si nega a nessuno. Ma siccome le dimensioni contano da Rocco Siffredi in giù, tanto vale mettere insieme un paio di dati.

Il primo è un semplice confronto tra trimestri e serve a dare l’esatta dimensione del Nuovo Miracolo Italiano. I dati ISTAT dicono che da quando è in carica il governo Conte il PIL ha avuto una variazione congiunturale pari a -0,1% tra giugno e settembre e a -0,1% tra ottobre e dicembre prima del +0,2% ancora provvisorio. E allora che cosa abbiamo vinto di preciso?

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Il secondo dato interessante è invece contenuto nel comunicato stampa dell’ISTAT che ha dato il via ai trenini di Capodanno. Come ha spiegato Mario Seminerio su Phastidio, l’istituto di statistica ha spiegato che tra le componenti del PIL i consumi e le scorte hanno dato un contributo negativo mentre l’export ha dato un contributo positivo alla crescita.

Non solo: considerando che, nel quarto trimestre dello scorso anno le scorte avevano sottratto crescita nel trimestre per lo 0,4%, ecco che appare verosimile che nei primi tre mesi di quest’anno le imprese abbiano lavorato per il magazzino, ovvero per ricostituire almeno in parte i livelli di giacenze, lasciate a decrescere nel trimestre precedente. E quindi le altre componenti domestiche della domanda, cioè consumi ed investimenti, hanno avuto nel trimestre una vera e propria gelata.

Poi c’è la prova-finestra, e qui le prendiamo. Il ritmo a cui si espande l’economia italiana resta al di sotto della media registrata nell’Eurozona nello stesso periodo (+0,4 per cento) e risulta ancora più basso se si considera il perimetro dell’Unione europea (+0,5 per cento). Fanno meglio Spagna (+0,7 per cento) e Francia (+0,3 per cento), mentre peggio dell’Italia sta facendo solo la Grecia. Se poi volessimo allargare un pochino lo sguardo al di là delle polemiche giornaliere, mensili e trimestrali, la classe politica italiana dovrebbe rendersi conto di un dato di fatto che è una colpa non per il MoVimento 5 Stelle e la Lega, ma per l’intero emiciclo: la Francia, la Germania e la Spagna sono uscite dalla crisi e crescono molto di più rispetto al 2008. L’Italia no. Il prodotto interno lordo italiano – secondo il centro studi Promotor citato dal Foglio – si va infatti assestando sul livello del 2018, che si è collocato al di sotto del 4,3 per cento rispetto al dato del 2007.

E l’elaborazione sui redditi del Sole 24 Ore conferma che la classe media ha perso il 12%. Tra gli importi dichiarati nel 2008 e quelli del 2018 c’è un calo di 2.350 euro all’anno in termini reali (cioè a parità di potere d’acquisto). Invece i più ricchi (oltre i 55mila euro) sono aumentati di numero, arrivando a rappresentare quasi il 5% dei contribuenti italiani. E l’occupazione? Come ha spiegato Repubblica il primo maggio, nel decennio della grande crisi l’Italia ha perso e recuperato un milione di posti. Ma di fronte a un milione di occupati a tempo pieno che mancano se ne guadagnano altrettanti a tempo parziale.

Di tutto questo bisognerebbe tenere conto quando si parla di economia italiana. E invece no: si preferisce baloccarsi nell’antica arte della negazione dell’evidenza. Come quando Laura Castelli se ne uscì con il famoso «questo lo dice lei» rivolgendosi all’ex ministro dell’Economia Padoan mentre si parlava del rapporto tra spread e tassi dei mutui. La viceministra all’Economia sosteneva che l’andamento dello spread non avrebbe influenzato quello dei mutui.

L’ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria di Bankitalia ha invece certificato che «il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato si sta trasmettendo gradualmente al costo dei nuovi finanziamenti». Questo significa che «rispetto allo scorso settembre i margini applicati dalle banche sui mutui a tasso fisso sono cresciuti di quasi 50 punti base, mentre quelli sui mutui a tasso variabile si sono mantenuti stabili». Che tradotto significa che accendere un nuovo mutuo costa di più. Di circa 500 euro l’anno. Perché? Proprio a causa dello spread. Sic transit gloria tonti.

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