Sinistra Calenda est

Dito Occhio Vendola

Anche io, lo confesso, sento un discreto richiamo per il Pd di Zingaretti. Come un “canto delle sirene” che per un attimo mi carezza la memoria, mi sollecita la nostalgia, mi offre l’illusione di una politica mite e passionale, senza spargimento di paura o evocazione del sangue. Come se avessi un chip innestato nel cranio, sento una voce che mi ripete soavemente: occorre l’unità contro i barbari; bisogna prendere più voti dei 5 stelle; non possiamo cedere al partito dell’odio; la sinistra è tornata. Entro in uno stato di sonnambulismo che mi riconcilia col mondo, sento le voci, ho un’impressione di levitazione, comincio a sorridere perché (così mi dice la voce di dentro) è giunto il tempo del Rinnovamento.

Poi apro gli occhi, ancora tremuli e sognanti, e con quel tepore e quello stordimento, con un certo automatismo accendo la tv, cerco un tg e qui accade il patatrac, l’imprevedibile, il doloroso risveglio, l’orroroso rinculo nella realtà effettuale: il nuovo Pd zingarettiano ha il volto di Carlo Calenda, è lui, proprio lui, il frontman della auspicata resurrezione dei progressisti. Mi viene un capogiro, mi crolla il mondo addosso. Ed è, amici cari, come svegliarsi dopo una grande sbornia: o Dio, c’è Calenda, allontanate i bambini: parla l’oracolo del riformismo nichilista. Lui, il più liberista tra i liberisti, il meno liberale tra i liberali, il perfetto “homo confindustrialus”, l’icona classica di come dovrebbe essere la sinistra politica secondo i desideri della destra economica. Che brividi! E che suggestioni: come mettere l’uomo di Neanderthal a capo di un club di futurologia. Ecco: il nuovo Pd di Zingaretti ha lo charme archeologico del Pd di Renzi, del Renzi che ritrova Calenda come Albano con Romina (e questa non è solo politica, è grande letteratura).

Il nuovo Pd dunque viene da lontano e va lontano: avesse il tempo di fare un salto anche dall’altra parte del Mediterraneo, potrebbe visitare quella Libia sdoganata dal Pd di Marco Minniti e magari troverebbe alcuni indizi delle cause che hanno portato Salvini al Viminale. Il mio atterraggio nella realtà, dopo il bel dormire zingarettiano, spegne tutto il mio ardore unitario: non mi piace il Pd a cui piace Macron, non mi piace l’europeismo acritico di chi non coglie la relazione tra politiche dell’austerità e del rigore contabile con l’onda nera del sovranismo parafascista, non mi piace la poesia dell’innovazione di chi poi pratica la prosa del più arruginito economicismo, non mi piace l’ambientalismo lirico degli industrialisti. Il Pd di Calenda ha le occhiaie di una narrazione già vecchia. Lo dico nonostante l’umana simpatia per questo Spiderman politico che ogni giorno lancia le proprie sfide al globo e le proprie ragnatele ai nemici del globo. Con quelle pupille da anima persa, quella mimica da capoclasse in quinta elementare, quella voce sempre oscillante tra la litania e l’isteria: lui ha comunque il fascio di nervi che scatta, l’ugola che fa il contropiede.

Ma è la spocchia che lo frega, come se fosse un allievo di Leonardo piuttosto che di Montezemolo, ed è la cattiva realpolitik che lo danna: perché lui pensa che la sinistra può vincere solo suicidandosi, facendosi centro. Stesso brutto film da oltre un ventennio. Finisce che si può perfino immaginare l’uso progressista della paura: che in fondo la sinistra è più efficiente della destra nell’accoglienza delle lobbies e nei respingimenti degli stranieri. Insomma Minniti è meglio di Salvini. E il Jobs Act è meglio del reddito di cittadinanza. E quando, dopo lunga traversata e lungo travisamento, il Pd giunge al centro del centro, all’identità politica perfetta, non deve più voltarsi indietro. Perché se lo fa non trova più nessun popolo e nessuna sinistra.