Dalla Norvegia alla Nato, tutti gli affari di Stoltenberg

di Raimondo Bultrini

Dalla guerra in Ucraina, ma già prima con l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe americane, il nome del Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è sulla bocca di tutti. Norvegese, già premier del governo di Oslo per ben due volte e figlio di un ex ministro degli Esteri del suo Paese, l’altissimo diplomatico è il più longevo leader dell’organismo guidato dagli Usa. Il mandato gli è stato allungato di almeno un anno, con relativa temporanea sospensione della sua nomina a governatore della Norgen, la Banca centrale che gestisce il più ricco fondo di investimenti del mondo.

Stoltenberg è protagonista non secondario della sorte di alcuni popoli (i curdi e i Rohingya del Myanmar in testa) ora nella veste di leader globale di un’alleanza militare “difensiva”, ora di ex premier del Paese che concede i Nobel per la Pace, compreso quello dato nel ’91 alla birmana Aung San Suu Kyi, attualmente in carcere dopo il golpe dei militari del 2021.

Capo di Stato, atlantista e uomo d’affari.

E ora veniamo allo Stoltenberg capo di Stato, atlantista e uomo d’affari. Il suo primo incarico da premier norvegese fu molto breve, dal 2000 al 2001, ma il secondo spaziò dal 2005 al 2013. Sostenitore della privatizzazione della compagnia petrolifera nazionale Statoil, tra il primo e il secondo incarico diresse anche Gavi Alliance, la fondazione finanziata da Bill Gates che promuove la diffusione globale dei vaccini. Ma fu da primo ministro che si distinse per il forte aumento della spesa militare all’interno della Nato. Sotto la sua leadership infatti la Norvegia dei Nobel partecipò alle più grandi esercitazioni militari condotte dall’Alleanza Atlantica dalla fine della guerra fredda, spesso svolte vicino ai confini russi. Non a caso lo Stoltenberg premier appoggiò decisamente l’allargamento della Nato per includere l’Ucraina e la Bielorussia col fine di isolare la Russia.

I curdi in Turchia

Come si spiega il “niet” della Turchia, appena ribattezzata Türkiye Cumhuriyeti (Repubblica di Turchia) all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’organismo atlantico del quale Ankara è parte? Il motivo dell’irritazione turca è la presenza, in questi due paesi altamente civilizzati, di gruppi e personaggi curdi considerati da Ankara “terroristi” tout court come lo Ypg (Unità di Protezione Popolare) e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan).

Vediamo meglio però come stanno le cose con un necessario passo indietro. Le forze militari del Pkk e dello Ypg – con la sua ala femminile Ypj di indomite soldatesse anti-fondamentalisti arabi più volte ritratte in azione dalla stampa mondiale – sono state globalmente elogiate per il loro strenuo sacrificio contro lo Stato Islamico.

Il governo di Ankara non ha mai apprezzato il sostegno militare Usa e – per chi ha dimenticato – dell’esercito russo a questi gruppi, che rappresentano in armi la propria gente in una causa considerata sacra oltre che giusta: il diritto di esistere e preservare l’antica lingua e religione a ridosso e all’interno di paesi come la Turchia e l’Iraq. Dopo le operazioni militari dell’YPG a Kobane – determinanti per la sconfitta dei fondamentalisti – una folla alla quale si unirono numerosi poliziotti turchi attaccò in settembre centinaia di curdi a Diyarbakir, Turchia occidentale, con linciaggi e violenze durate due giorni.

Ma il caso più noto e perlopiù entrato nell’oblio della storia come tanti altri del genere, risale agli anni della guerra tra Iraq e Iran alla fine degli anni 80. Un dossier realizzato dopo due anni di ricerche da Human Rights Watch tra il 1992 e il 1994 svelò i retroscena dell’attacco chimico di Halabja nel Kurdistan iracheno avvenuto il 16 marzo 1988. Fu definito «il più grande attacco con armi chimiche diretto contro un’area popolata da civili nella storia», con 5.000 curdi morti all’istante e altre migliaia uccisi dagli effetti di una sostanza identificata inizialmente come gas mostarda – dunque attribuita all’Iran che la produceva – e poi rivelatasi sarin.

L’autore del dossier Joos Hiltermann analizzò «migliaia di documenti della polizia segreta irachena», «documenti declassificati del governo statunitense», intervistò «sopravvissuti, disertori iracheni e ufficiali dell’intelligence Usa in pensione» e concluse che «gli Stati Uniti, pienamente consapevoli che era stato l’Iraq (guidato da Saddam Hussein all’epoca loro alleato, ndr), hanno accusato l’Iran, nemico dell’Iraq in una guerra feroce, di essere in parte responsabile dell’attacco». Alle stesse conclusioni giunse nel 2001 lo studioso Jean Pascal Zanders del Progetto di guerra chimica e biologica dello Stockholm International Peace Research Institute che confermò l’uso del sarin a disposizione dell’Iraq. Ma la prova finale venne dalle intercettazioni di Ali Hassan al-Majid, cugino di Saddam. Parlando al telefono dei curdi schiacciati tra i due paesi in guerra al-Majid disse testualmente: «Li ucciderò tutti con armi chimiche. Chi ha intenzione di dire qualcosa? La comunità internazionale? Fanculo la comunità internazionale». Vi ricorda qualcosa? Più o meno le stesse parole usate dalla sottosegretaria di Stato Usa Victoria Nuland parlando con l’allora ambasciatore americano a Kiev dell’indecisione di Bruxelles durante la crisi Ucraina seguita alle proteste di EuroMaidan. “Fuck EU”, disse.

L’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato

Ora torniamo a cronache più recenti. Negli ultimi cinque anni Finlandia e Svezia, dopo l’ennesima violazione dei diritti dei curdi da parte della Turchia nel 2019, hanno imposto di conseguenza restrizioni all’export di armi verso Ankara e negato la richiesta estradizione di decine di terroristi veri e presunti, inclusi membri del Pkk. A ottobre dello stesso anno Stoltenberg – già capo della Nato dal 2014 – sostenne però l’offensiva della Turchia contro i curdi siriani, ritenendo che la Turchia stesse «agendo con moderazione».

Lo scorso 25 maggio, parlando alla stampa spagnola dell’opposizione turca all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, il segretario generale disse che «nessun paese, a parte la Turchia, ha subito attacchi terroristici» (dei gruppi curdi, ndr) e che Ankara, «in quanto importante alleato della Nato ha legittime preoccupazioni per la sicurezza che devono essere affrontate e risolte». A chi gli chiedeva come mai sostenesse Ankara contro due gruppi considerati eroici alleati durante la guerra siriana all’Isis, il capo della Nato ha negato che i membri di Pkk e Ypg operanti fuori dalla Siria siano gli stessi che si batterono contro Al Baghdadi. «Il Pkk – disse – è riconosciuto dall’Unione europea come organizzazione terroristica». È dunque con queste confuse premesse che il 28 giugno si terrà a Madrid il vertice della NATO, dove i due paesi nordici – secondo il politico norvegese – «potrebbero partecipare» in quanto già virtualmente accolti, anzi sollecitati, a entrare «prima possibile» nel Patto atlantico. Ma – ha precisato – «prima dovrebbero rispondere alle richieste della Turchia».

I Rohingya e gli affari in Myanmar

Ora veniamo al popolo degli islamici Rohingya dell’Arakan birmano, alla cui sorte è legata ora anche quella degli stessi birmani di etnia maggioritaria buddhista che a loro volta li emarginarono e perseguitarono a lungo. Stoltenberg era primo ministro quando il 15 giugno del 2012 invitò la Nobel della Pace Aung Suu Kyi a Oslo per tenere personalmente il discorso di accettazione dell’ambito riconoscimento. Che l’abbia consigliata o meno, la Lady birmana si guardò in quell’occasione dall’accennare nella prestigiosa Hall dei Nobel a ciò che era successo pochi giorni prima nel suo paese, quando lo stupro di una ragazza buddhista nello stato dell’Arakan scatenò una violentissima caccia agli islamici Rohingya accusati di esserne stati gli autori. Un pullman venne dato alle fiamme carbonizzando una decina di occupanti musulmani e si scatenò una campagna di violenze e rappresaglie con interi villaggi bruciati.

Più di 200 furono i morti su entrambi i fronti e migliaia i deportati Rohingya, recintati nei ghetti di Sittwe dove sono ancora oggi, guardati a vista. Altri sono confinati senza possibilità di muoversi nelle province di confine col Bangladesh, teatro nel 2017 del nuovo e ben più vasto olocausto che costrinse oltre 700mila uomini, donne e bambini alla fuga verso il paese islamico confinante. Ancora adesso vivono qui in malsani campi profughi mentre altri sono stati deportati su un’isola del golfo bengalese soprannominata senza eufemismi Alcatraz. Pochi media – men che meno il premier che l’aveva invitata – contestarono a Suu Kyi quella sua riluttanza a parlare delle violenze anti-islamiche nel suo paese (in Italia Adriano Sofri, inviato con chi scrive da La Repubblica a seguire la cerimonia di Oslo fu l’unico a riprendere un mio blog dove ricordavo gli incidenti seguiti allo stupro). Ma quello stesso anno a novembre – 5 mesi dopo – Jens Stoltenberg visitò il Myanmar incontrando tutte le autorità militari responsabili di quello che l’Onu definì senza mezzi termini un genocidio. E incontrò anche Suu Kyi, da pochi mesi entrata in Parlamento dopo l’accordo con i generali “moderati” sigillato dalle visite di Hillary Clinton e Barak Obama giunti da Washington con largo seguito di uomini d’affari.

Anche Stoltenberg nel suo viaggio di novembre fu accompagnato da uno stuolo di potenziali investitori e a introdurlo nel paese “democratizzato” fu Katja Nordgaard, ambasciatrice di Oslo in Thailandia e poi a Rangoon, un personaggio chiave per capire come funzionano certe commistioni. Fu la diplomatica Katja a trattare con Suu Kyi il sostegno per l’ingresso della compagnia telefonica nazionale Telenor nella proficua e “vergine” rete di connessioni telefoniche e internet birmane. Al termine del suo mandato di ambasciatrice norvegese in Thailandia e poi Myanmar, la signora Nordgaar venne nominata vicepresidente esecutivo della Telenor con sede a Oslo. Fu il premio per aver mediato – con la benedizione del suo premier Stoltenberg – non solo la redditizia concessione di Telenor ma anche i diritti di esplorazione dei giacimenti di gas dell’Arakan per l’altra compagnia nazionale Statoil (per la cui privatizzazione si era a lungo battuto il nostro Stoltenberg). Telenor ottenne ufficialmente la licenza per gestire all’incirca 18 milioni di utenti nel gennaio 2014, e alla stessa data iniziarono le operazioni Statoil per l’estrazione di petrolio nel Golfo del Bengala al largo del Myanmar, anche se Suu Kyi era allora una semplice parlamentare e non capo del governo del quale prenderà le redini, con il cappio dei militari al collo di un “cavallo” dal quale infatti venne disarcionata lo scorso anno.

In Norvegia non tutti – come Audun Aagre, presidente del Comitato norvegese per la Birmania – furono d’accordo con la politica di interessi economici presentati come un sostegno al processo democratico birmano. Soprattutto dopo che l’ex intraprendente ambasciatrice Nordgaard finì ai vertici di Telenor.

Stiamo per arrivare alle vicende che ancora oggi potrebbero vedere coinvolto in un’inquietante indagine giudiziaria il governo di Oslo, tuttora fortemente influenzato dalla figura di Stoltenberg che al termine del suo mandato di capo del Patto atlantico dovrebbe diventare come detto governatore della Norges Bank fondata all’inizio dell’800.

Prima del finale che coinvolge milioni di ignari utenti Telenor, c’è un altro episodio piuttosto significativo, certo non attribuibile alla compagnia norvegese ma quantomeno imbarazzante se non inquietante. Avvenne durante i massacri dei Rohingya del 2017, quando Suu Kyi era già da due anni Consigliera di stato e capo de facto del governo. Senza che la compagnia protestasse se non – blandamente – le sue rimostranze al governo misto della Lega nazionale per la democrazia di Suu Kyi e dei generali, divennero pubbliche numerose evidenze e testimonianze sull’operato dei soldati birmani in un villaggio islamico chiamato Alethankyaw. Qui – nelle province ghetto dei Rohingya – le torri di telefonia norvegesi vennero utilizzate per sparare sugli abitanti in fuga dalle capanne date alle fiamme. L’incidente fu solo un campanello d’allarme, perché è solo dopo il golpe del febbraio 2021 che la presenza di Telenor in Myanmar si rivelò un boomerang di proporzioni drammatiche.

La compagnia fu costretta a svendere la concessione dopo il golpe dei militari, i quali fecero subito pressioni su Telenor per consegnare tutte le informazioni sugli utenti che avevano scelto la compagnia norvegese fiduciosi di poter scampare così i controlli delle altre società di telefonia di proprietà militare o condizionate dall’esercito. La vendita avvenne a prezzi stracciati come accade quando ci sono in ballo cause di forza maggiore, ma Telenor non si curò nemmeno di capire se l’acquirente aveva le carte in regola per entrare in possesso dei dati personali dei suoi 18 milioni di utenti. A comprare l’intero pacchetto Telenor fu il “Gruppo M1”, di proprietà della famiglia di un ex Primo Ministro libanese, in joint venture con una società collegata all’esercito birmano, la Shwe Byain Phyu Company Limited.

In Norvegia qualche gruppo umanitario ha tentato – non sappiamo ancora con quali esiti – di imbastire un processo contro i responsabili di questa operazione. che potrebbe avere conseguenze letali per i dissidenti del Myanmar, spesso già individuati, arrestati e uccisi sulla base dei dati digitali già da tempo a disposizione del regime attraverso le compagnie telefoniche costrette o d’accordo nel dare pieno accesso a registri e comunicazioni private. Non sappiamo quanto e come Stoltenberg abbia spinto per accelerare l’uscita del suo paese dal terreno minato e insanguinato del Myanmar, come hanno fatto col suo plauso gli americani dall’Afghanistan. Ma l’analogia tra il futuro di questi paesi già devastati e quello dell’Ucraina in fase di devastazione dovrebbe far riflettere sulla fragilità di un’alleanza occidentale molto forte a parole ma nei fatti cementata da due fattori sempre convergenti: avidità e codardia.