Depistaggio Borsellino: “Volevo scappare da Pianosa perché mi stavano facendo morire”

Al termine del processo di primo grado verso i tre ex agenti della squadra di Arnaldo La Barbera, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di aver indotto Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie accusando degli innocenti, i reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti perché la Procura di Caltanissetta ha fatto cadere l’aggravante mafiosa. Resta il reato di calunnia: Bo e Mattei sapevano delle false accuse di Scarantino ma non hanno agito per favorire Cosa Nostra. Il terzo impuntato Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.

da “Nient’altro che la verità” di Michele Santoro – Edizioni Marsilio

“Giovedì 30 gennaio 2014, dopo quindici anni passati in carcere e a ventun anni di distanza da via D’Amelio, Sca­rantino è seduto davanti a me, nello studio televisivo di Servizio pubblico a Cinecittà, e si arrampica faticosamente sulla ripida e scoscesa altura del suo italiano. Non mostra segni visibili di affaticamento: la faccia è coperta da una maschera. Deve essere un uomo dilaniato dalla paura, pau­ra di tutti: della mafia, dello Stato e di chi lo incalza con le domande.
«Cosa successe dopo il suo arresto?».
«Mi portarono nel carcere speciale di Pianosa. Calci, pugni e sputi in faccia. Appena arrivato peso centootto, centonove chili. Un anno dopo ne peso cinquantotto».
«Ma perché, non mangiava?».
«Mi davano la pasta con i vermi e con le mosche dentro. La minestra, la prima volta che sento questa cosa salata penso: “Ma che, la fanno con l’acqua del mare?”. Dopo so­no stato attento. Mi sono messo a origliare dietro alla por­ta. Proprio nel momento che la guardia apre e portano il cibo. E sento a uno che dice: “Ma ti viene da pisciare? Perché a me mi viene”».
«Questo le guardie?».
«Le guardie. Hanno fatto la pipì nella pasta prima di darmela. Io non la mangio. La prendo e la butto. La notte non mi facevano dormire. Secchiate addosso di acqua gela­ta appena mi addormento. La spesa non la posso fare più. Bene o male riuscivo a comprare qualcosa per mangiare. Così non tocco più il cibo. Né quelle zozzerie né niente. Sto male. Vado pure in depressione. Senza televisione in cella, sempre la stessa tuta, le stesse scarpe, le stesse calze, le stes­se mutande. Un asciugamano per il viso, che mi ci lavo
anche i denti che non ho lo spazzolino, e uno per il bidet. Prima che arriva l’avvocato mi fanno la perquisizione e mi fanno spogliare completamente nudo. Mi costringono a fa­re le flessioni e con la paletta di teak mi danno colpi sotto i testicoli. Il dottor La Barbera, il capo della squadra mobile che mi ha preso, ha deciso che io devo fare come Buscetta: “Così diventi più importante e ti diamo i soldi”. Quelli del servizio centrale di protezione mi hanno fatto promesse: “Sarai un imprenditore di un albergo”. Mi han­no assicurato che mi comprano l’albergo».

«Queste cose chi gliele dice?».
«Il dottor La Barbera me le dice».
«A Pianosa, nel carcere?».
«Appena io mi addormento, vengono, mi svegliano e mi portano da lui. Non mangiando, non avendo zuccheri, una persona si indebolisce non solo fisicamente, ma anche psi­cologicamente. Però, con tutto ciò, io glielo dicevo».
«Cosa?».
«Io sono innocente. Io collaboro; ma delle cose vere, della droga; io di queste mostruosità non ne so niente».
«E la riunione, che ha testimoniato di aver visto, alla quale avrebbero partecipato tutti i boss per decidere l’at­tentato a Borsellino?».
«Loro me l’hanno detto, io non avevo nessun motivo di inventarmi le cose».
In trasmissione quella sera ci sono anche Marco Trava­glio, direttore del «Fatto Quotidiano», e Giorgio Mulé, di­rettore di «Panorama», oltre a Dina Lauricella, la giornali­sta che ha condotto l’inchiesta per Servizio pubblico. Tutti incalzano quest’uomo in maschera di cui si possono solo intuire le reazioni e le esitazioni. Barcolla, balbetta, ma, in definitiva, non si contraddice.
«Chi le ha detto di dire queste cose, chi è stato?».
«Loro. Il dottor La Barbera e i suoi uomini. Facciamo continuamente conversazioni e loro indicano le soluzioni: “C’è stata una riunione qui”; “Erano presenti Tizio e Caio”. Io gli dicevo: “Natale Gambino e Tanino Murana non c’en­trano niente, quelli erano in viaggio di nozze”. Mi assaliva­no: “Non è vero, nelle nostre indagini ci sono anche loro”».
«E lei accetta queste bugie e le mette a verbale».
«Volevo scappare da Pianosa perché mi stavano facendo morire».
Il castello accusatorio nasce da un’intercettazione in cui si chiede a Scarantino il piacere di aiutare a ritrovare un’au­to rubata. La Barbera ne deduce che deve essere lui ad aver procurato il veicolo dell’autobomba e su questa pietra co­struisce una chiesa. Le false accuse tengono in galera per più di diciotto anni sette innocenti, solo sei di loro sono ricollegabili in qualche modo a famiglie mafiose”.